#ioracconto: “La zia Pél e òss e i suoi ritratti"

2023-03-08 14:31:41 By : Ms. Helen Huang

6 Mar 2023 | #ioracconto, Storie e Racconti

Anni fa mi piaceva passare il tempo libero a scrivere racconti, per lo più pescavo le storie dalla mia memoria, dai ricordi della mia infanzia, soprattutto da quello che mi raccontava mia mamma. Avevo creato una sorta di Lessico familiare imolese che mi divertiva molto. Mi piaceva talmente tanto scriverli e rileggerli che per un po’ mi sono sentita la John Fante di Imola. Fante, amato scrittore italoamericano, quello di “Aspetta la primavera, Bandini”, di ”Chiedi alla polvere” ha scritto una decina di libri fantastici girando sempre attorno alla storia della sua famiglia di muratori abruzzesi emigrati in California: nonni, genitori, zii, betoniere. Ad ogni libro li ricreava, tornavano a vivere diversi ma sempre gli stessi. Erano sempre loro a ispirare l’autore.

Attingevo pure io dalla mia grande famiglia, donne, nonni, genitori e zii, a volte chiedevo precisazioni e commenti a vecchie zie che mi correggevano il tiro o il ricordo, perché io ricamavo molto, troppo. Oggi che le zie non possono più aggiungere altro alla narrazione posso ritornare a scrivere e ricamare come mi pare.

Ogni racconto parte da una piccola frase, ovviamente in dialetto, parole ritornello di tipiche occasioni familiari, le storie inseguono una voce che sento ancora, voce che non è più tormento e che nel tempo mi fa ancora sorridere.

Le mie storie sono dedicate alle donne e alle voci del passato.

La pubblicazione di questi racconti, per leggilanotizia, è un modo un po’ diverso dal solito per celebrare l’8 Marzo, Giornata internazionale della Donna. Buona lettura.

Tante donne in là con gli anni credono che la loro vita non sia degna di essere raccontata: non hanno fatto niente di speciale, dicono, hanno trascorso l’infanzia durante la guerra e poi fatto famiglia e figli faticando come le loro coetanee, hanno lavorato ma non hanno fatto carriera, hanno viaggiato solo fino alla riviera, hanno vissuto la loro vita con semplicità e sobrietà, niente studi, niente capricci e nessuna pretesa.

Io invece penso che ogni vita sia una piccola miniera, una montagna di tesori che deve essere scoperta, esplorata per indicare a noi, figlie e nipoti, un sentiero, un disegno, una traccia. Quando lo scopriamo questo tesoro, queste perle di vita, dobbiamo poi imparare a tenercelo stretto perché capiremo che la strada della nostra esistenza non è una pagina bianca, ma è percorsa da carovane di avi che indicano una rotta.

Anni fa intervistavo donne e uomini, per arricchire la mia personale montagna di tesori.

Il racconto che segue, inedito, è la storia di una mia zia, alla quale ero molto affezionata. Oggi non c’è più e io posso solo ricordarla così, condividendo con voi le sue parole e la sua simpatia.

Oggi sono venuta a trovare zia Milla, perché con una vecchia zia bisogna farsi vivi ogni tanto. La conoscevo come una donna piena di energie, una grande lavoratrice, una brava sarta, una buona cuoca, una donna autonoma, con la patente, un po’ frenetica. Oggi cammina fra il letto e la poltrona, si aggiusta cuscini dietro la schiena, si cucina un po’ di verdura cotta e un petto di pollo. Di più non riesce a fare, perché ha dolori lancinanti alla schiena, la sua colonna vertebrale non ne vuole più sapere di reggere il peso della vita. «…E tutto il resto che gli va dietro» mi dice «sapesti quanti mancamenti ho, ci son dei giorni che mi faccio coraggio ma altri che mi chiedo cosa sto ancora a fare qui…» Mi spiace vederla sofferente, vorrei poterla aiutare, ma telefonarle e farle un po’ di compagnia sono le sole cose che posso fare.

Le chiedo di raccontarmi di quando era bambina, prima, durante e dopo la guerra, così, anche solo per oggi, spero dimentichi i suoi tanti acciacchi. «Della mia infanzia mi chiedi. Che fatica… Ma perché vuoi sapere queste cose, non sono mica divertenti sai, sono storie di miseria.»

Devo insistere per convincerla a lasciarsi andare alla narrazione. Le donne come lei non sono state educate a parlare di sé, hanno sempre tenuto tutto dentro. A parte qualche confidenza con l’amica del cuore, i loro dubbi e le loro difficoltà sono state abituate a sbrogliarseli da sole ma, dal momento in cui cominciano a raccontare, hanno tanto da dire: a loro modo hanno riflettuto sulla vita, gli strumenti per capirla se li sono costruiti da sole, con le loro mani, a costo di sacrifici, errori e fatiche. Non sanno solo cucire e far la “spoglia”, ascoltarle per me è molto interessante.

«Dai zia, a me fa piacere e tu ti distrai, non pensi alla tua schiena e a tutti i tuoi mali. E poi devi essere orgogliosa di essere ancora lucida, con la testa sempre attiva.»

«Anche troppo, ho la testa piena di pensieri che mi assillano. Penso sempre, di continuo. L’unica cosa che è ancora buona è la testa, il resto è crollato come una pera cotta.»

Si ferma, prende un bel respiro, non l’ho convinta ma si concede, lo fa per farmi contenta: «Sono nata a Dozza nel 1925. Il ricordo più lontano che ho è quello di mia zia Amalia che cercava di pettinarmi. Sai, avevo una testa di capelli ricci e ribelli, lei cercava di pettinarmi mentre io strillavo dal male e scappavo via sotto al letto. Ero a casa sua, a Dozza, e dovevo essere molto piccola, perché a cinque anni con la mia famiglia mi trasferii a Imola, prima in via Croce Coperta poi in via Fratelli Bandiera, vicino alla Rocca.

Ho frequentato le scuole elementari Carducci: la mia maestra, la Balestrazzi, era tremenda, portava una strana capigliatura con un solo boccolo da una parte del volto, gridava e girava sempre con la bacchetta fra le mani, ci intimoriva: io avevo una gran paura di lei e di conseguenza non capivo niente. In terza, per fortuna, cambiai maestra, venne una signora da Bologna. Ricordo che aveva una borsetta nera, l’appoggiava sulla cattedra e io pensavo: “che roba bella che ha!” Finalmente cominciai a capire la matematica. Un giorno mi fece dei complimenti davanti a tutti: lo ricordo come uno dei momenti più belli della mia infanzia, forse il solo.

Il pomeriggio giocavo nel prato della rocca, eravamo tutte femmine, litigavamo spesso e ci picchiavamo. Ho ancora davanti agli occhi tutte le facce di quelle bambine, come se fossero qui: Francesca voleva comandare, ma anch’io volevo dirigere i giochi, as dégni dal batùd… Rosanna era la mia amica preferita, Anita era una bella morettina. La sera passavo molto tempo sulla soglia di casa seduta su di un seggiolino ad aspettare che mia mamma tornasse dal lavoro: lavorava da Becca, alla frutta, e d’estate tornava la sera tardi.

Quando arrivava, andavamo all’osteria della Culazóna a prendere mio babbo. Io non entravo, l’aspettavo fuori. Mia mamma cercava di convincerlo a tornare a casa, lui si arrabbiava ma poi usciva; a casa lanciava le scarpe contro il muro, faceva un gran rumore, lei cercava di calmarlo. Lui voleva ancora da bere, lei gli dava dell’acqua con un goccio di vino, lui allora buttava con stizza a terra il bicchiere. Io mettevo la testa sotto le coperte per non sentire. Il giorno dopo a tavola c’era un silenzio di tomba, mio babbo stava zitto, forse si vergognava. Io mi vergognavo di lui, ma non potevo farci niente. Non si parlava.

Ero una bambina pèl e òss, secca secca, malaticcia. Il nostro medico era il dottor Casati che viveva anche lui in via Fratelli Bandiera: era un uomo grande, grosso, assomigliava a mio nonno, era un “signore” di famiglia, non si faceva pagare da nessuno. Se mi vedeva per strada mi prendeva per mano, mi portava al bar Rineo e mi pagava il gelato. Mi regalava delle pagnotte di pane che davo a mia mamma, lei le divideva in tanti pezzi e li metteva da parte. Il dottor Casati è stato un uomo buono e gentile, io pensavo di lui tutte le cose più belle.

A otto anni ebbi le febbri intestinali, stetti in ospedale parecchio tempo e persi l’anno di scuola: ricordo che cercavo di abbassare il termometro perché volevo andare a casa, sapevo che il dottor Casati mi avrebbe guarito. A dieci anni andai da una sarta vicino alla chiesa del Carmine per imparare qualcosa, in realtà mi faceva spazzare in terra, mi mandava a prendere al negozio quello che le serviva, mi dava l’ago in mano solo per far piccole cose. Imparai presto però a imbastire vestiti per le mie compagne, così mentre stavo seduta nei gradini, la sera, ad aspettare la mamma, cucivo gli abitini e non mi annoiavo.

Poi venne la guerra e la nostra miseria divenne cagnesca. Non avevamo più nulla da mangiare né per scaldarci, i miei fratelli erano soldati e mio padre non aveva lavoro. Mia madre andava a la sgaréa, in segheria, e prendeva i réz ed légn per la stufa economica, li usava sia per cucinare che per scaldare la stanza: metteva in mezzo la stanza un bidone pieno di segatura pressata, con un bastone al centro, dava fuoco alla carta poi toglieva il bastone, la segatura s’infiammava, bruciava poco alla volta e faceva caldo, tepore in tutta la cucina ma si affumicava tutto, noi compresi, i vestiti avevano un che di acre, ma chi ci faceva caso, eravamo messi tutti così!

Il nostro appartamento, all’ultimo piano, era indecente, pieno d’umidità, i muri erano fradici. Il soffitto un bel giorno cadde sul mio letto, cadde per la grande miseria in cui vivevamo. Mia madre riuscì a farsi risarcire dai padroni il materasso. Non avevamo il gabinetto, si andava in cortile dove c’era un buco per i bisogni e il pozzo per l’acqua. Per aiutare in casa trovai da lavorare alla tipografia Galeati, ero una ragazzina: piegavo la carta, spostavo i libri; poi andai anch’io da Becca alla frutta, noi ragazze ci portavano in treno a Bologna in un capannone; lì conobbi delle bolognesi che mi diedero l’indirizzo di una sarta perché, mentre dividevo la frutta nelle cassette, non facevo altro che dire che volevo imparare a cucire.

Allora con quei due soldi che avevo racimolato mi pagai l’abbonamento del treno e cominciai a lavorare da questa sarta che aveva la bottega vicino al ponte della stazione. Imparai a fare i segni nella stoffa, a imbastire le sottane, fino a metterle in prova. Andavo via da casa al mattino con un uovo sodo, perché la maestra non ci dava da mangiare: me lo facevo bastare per tutto il giorno. Mi piaceva prendere il treno e imparare un mestiere. Ci restai fino al primo bombardamento. Poi spostarsi in treno divenne pericoloso e smisi di andare a Bologna.

Quell’anno, il ‘44, non avevamo più nulla da mangiare. Per fortuna c’era l’ECA, vicino a casa, che ci distribuiva un piatto di minestra. Il direttore dell’ente era il fratello di Lucia, una mia amica, e mi diede una lettera di presentazione per il direttore dell’ospedale e mi assunsero. Il primo giorno di lavoro mi mandarono all’Osservanza a prendere cinque malati da accompagnare al civile a lavorare: uno di loro mi voleva subito sposare! Lo stipendio che mi davano serviva per tutti e tre, io mio babbo e mia mamma, lavoravo e piangevo perché ero l’ultima arrivata e le più vecchie mi facevano fare i lavori più duri. Ma almeno stavo al caldo, mi avevano messo in cucina. Andavo a lavorare alle sei di mattina. Dovevo prendere dalla dispensa tre bidoni pieni di latte: erano pesantissimi e non sapevo come spostarli, li facevo scivolare piano, piano e me li appoggiavo sulla pancia e li trasportavo in cucina. Poi, con un sistema di carrucole, li mettevo a scaldare dentro alla fornacella e dividevo il latte caldo nei tegami dei reparti. Durante la mattina si cucinava il pesce, la carne, le mele cotte, si faceva la frittata; ricordo bene quando preparavamo il purè perché era faticoso, era duro da mescolare, mi facevano male le braccia; anche scolare le patate era faticoso, la pentola era pesantissima. Dopo aver fatto tutto questo c’era da pulire e lavare a terra, per fare i lavori di pulizia mi aiutava Pietro, un malato dell’Osservanza. Lavoravo otto, nove, dieci ore al giorno!

Poi ci fu la paura dei bombardamenti in città e sfollammo in campagna, vicino a Dozza, presso dei contadini. Mio padre li aiutava e in cambio gli davano un litro di latte con il quale, il giorno dopo, faceva il formaggio. Ricordo che un mio filarino di Imola mi aveva fatto due ritratti che avevo attaccato a del cartone e da sfollata li avevo portati con me; ci tenevo a quei ritratti, ma li avevo dovuti usare per chiudere i buchi delle finestre e ripararmi dal freddo. Li guardavo spesso, non avevo lo specchio.

Mi sentivo brutta, magra, invece quando guardavo quei ritratti mi rincuoravo: se lui mi aveva preso come modella allora dovevo avere qualcosa di grazioso. Quel mio filarino era Germano Sartelli, è diventato un artista famoso: i miei ritratti, però, sono rimasti sotto le granate che ruppero tutti i vetri. Scappammo via veloci, lasciammo là tutto. Ci rifugiammo prima in una casa vicino alla rocca e poi in un’altra sulla via Sellustra. La casa vicino alla rocca fu bombardata e morirono in tanti: noi l’avevamo scampata per poco.

Un giorno dalle carceri di Dozza fuggirono due prigionieri: i tedeschi cercavano due negri, passarono con una camionetta lungo la via Sellustra e presero su me, mia mamma e altre donne che si trovavano lungo la strada, solo per metterci paura. Ci fecero scendere dopo un bel pezzo, quasi sulla via Emilia. Io ero in sottabito e mi vergognavo, non facevo altro che coprirmi le ginocchia, le gambe magre e pensare che ero svestita. Tornammo indietro a piedi, ma a quello ci eravamo abituate. Passata la guerra tornammo a casa a Imola. La nostra vita era devastata, mio fratello era ancora prigioniero in Germania.

Tornammo nel nostro appartamento ma i padroni nel frattempo erano cambiati e i nuovi erano venuti ad abitare nello stesso caseggiato. Ci tormentavano tutto il giorno, volevano mandarci via, ci spostarono in un appartamento al piano rialzato. Entravano in casa senza chiedere permesso e ci offendevano, ci dicevano che eravamo sporchi. Quando passavamo davanti alla loro porta ci dicevano dietro dal bujaréi: avìvla da què! Ma dove andavamo?

Io tornai a lavorare in ospedale, in cucina, in lavanderia, in guardaroba, anche se avevo qualche anno in più era sempre un lavoro massacrante, ma perlomeno era sicuro. Dopo che mio padre morì, nel 1946, mia madre e mio fratello riuscirono a trovare una nuova casa, in viale Saffi, sempre in affitto, un buco a pian terreno, ma almeno non avevamo più a che fare coi padroni di prima.

Poi conobbi un ragazzo di Bologna. Dal tempo della sartoria ero affascinata dai bolognesi, mi sembravano tutti più signori di noi, parlavano in un altro modo. Ricordo la prima volta che lo vidi pensai che aveva un bel paltò, che era elegante. Mi portava a ballare a Castel san Pietro, era gentile. Lo sposai perché volevo avere una casa mia, togliermi dalla miseria.

Mi hai fatto parlare di quegli anni, e mi è venuto su il nervoso. Penso a quanta miseria e fatica ho patito e sopportato e mi stupisco di essere ancora al mondo. Dolorante, ma ci sono.»

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